Diario di bordo: in moto verso il Nemrut Dagi

Siamo in coda ad un semaforo a Malatya, ad un tratto sentiamo il rumore di uno scooter, non ne abbiamo incontrati finora, così lo guardiamo tanto incuriositi quanto lo è lui nell'osservare questa coppia di motociclisti. Solleva la mano, allunga le dita, le chiude intorno al pollice, ondeggia il polso. Noi ci rimaniamo un po' male, ci ha praticamente fatto il segno del “che cavolo vuoi” ... Facciamo finta di non aver capito e distogliamo lo sguardo.

Strano, non ce lo aspettavamo, avevamo finora incontrato persone molto gentili, sempre pronte a elargire sorrisi disponibili.

Comunque, abbiamo altro a cui pensare, non riusciamo a trovare le indicazioni stradali per la prossima meta, il Nemrut Dagi, uno di quei luoghi meravigliosi che da tempo sognavamo di raggiungere, ed il GPS non sta venendo in nostro aiuto.

Scatta il verde, il ragazzo sullo scooter ci fa cenno di aprire il gas, gli sorridiamo ma non lo facciamo, e allora lo fa lui, e sparisce velocissimo in mezzo al traffico di Malatya del sabato pomeriggio.

La spia della riserva è ormai da qualche chilometro che cerca di attirare la nostra attenzione, appena troviamo un distributore è meglio fare benzina.

Troviamo quasi subito una modernissima area di servizio ove riempire il capiente serbatoio della nostra GS, cogliamo l'occasione per scambiare quattro chiacchiere con il simpatico ragazzo dell'area di servizio, Orhan, che preferisce far fare a noi, così può osservare ogni dettaglio di quella che definisce “good, good motor”.

“Italy?” chiede con un ampio sorriso che mette in luce il contrasto tra i suoi denti bianchissimi e la pelle olivastra

“Sì, Yes, Italia” rispondiamo all'unisono contraccambiando il sorriso.

“çayi? coffee?” ci propone premuroso. E' una costante in Turchia, ad ogni sosta per fare benzina, ci offrono qualcosa da bere, e noi non vogliamo certo rinunciare a questo piacere,occasione per conoscere meglio questa straordinaria gente.

“Good Italy, Milan, Inter, Juventus, Maldini, Totti” dice lui entusiasta mentre ci porge le fumanti tazze di thè.

Sono gli unici momenti in cui siamo dispiaciuti di non capirne nulla di calcio, ma facciamo finta del contrario e annuiamo cercando però qualsiasi pretesto per cambiare argomento.

“We are going to Nemrut Dagi ...” diciamo “Do you Know the road to Nemrut Dagi?”

Ci fa cenno di sì con la testa, non parla inglese ma ha capito benissimo.

“The road...? Nemrut Dagi” chiediamo noi porgendogli la cartina.

Nel frattempo un pullman granturismo, di quelli che fanno la spola tra una città e l'altra della Turchia, si è fermato per permettere agli accaldati viaggiatori di sgranchirsi un po' .

Scendendo dai gradini del pullman, qualcuno ci fa un cenno di saluto, qualcuno ci guarda con discrezione, e noi, a nostra volta, li studiamo ad uno ad uno nel modo meno sfacciato possibile.

Cosa c'è di più interessante dell'essere seduti ad un caffè e godere dello scorrere della vita quotidiana in luoghi lontani da noi in quanto a cultura, modi di fare, di vestire e di parlare, e pensare di essere parte anche noi dii quel mondo.

Orhan si rivolge all'autista dell'autobus in una trama di consonanti e vocali per noi inestricabile, l'unica parte che ci pare di aver capito è Nemrut.

Sì, starà chiedendo lumi sulla miglior strada da seguire per raggiungere il Nemrut Dagi, pensiamo noi.

L'autista, che è l'unico ancora rimasto sul mezzo, scende dal pullman e prende in mano la nostra cartina, quando a noi pare che stia per iniziare a darci le indicazioni ci ripensa e si rivolge ad alta voce a uno dei passeggeri, e anche in questo caso capiamo solo “Nemrut”.

A questo punto scatta la molla, tutti gli uomini dell'autobus si avvicinano all'autista, ormai abbiamo perso il controllo della cartina. L'autista è circondato dai suoi connazionali, ognuno dei quali ha da dire la sua sul percorso migliore da seguire e nessuno sembra essere d'accordo con gli altri, le cartina passa più volte di mano.

Inizia un vociare a noi incomprensibile e nessuno ormai si ricorda più di noi che li stiamo ad osservare, senza proferire parola, tra lo sbigottito ed il divertito.

La scena continua per qualche minuto fino a quando, a risolvere questa situazione surreale, interviene un signore sulla cinquantina che in ottimo inglese si offre di accompagnarci per un pezzo di strada, visto che anche lui deve andare nella stessa direzione.

Che delusione deve essere stata per quel campanello di uomini che cercavano di trovare un accordo su quale fosse il percorso da suggerirci per farci arrivare al Nemrut...

Non ci resta che ringraziare e salutare tutti, e seguire questo gentile signore.

Ancora una volta restiamo stupiti dell'estrema gentilezza delle persone incontrate.

Seguiamo la punto bianca fino a quando non accosta ed il gentile signore ci saluta, non prima però di averci fornito le indicazioni per l'ultimo pezzo di strada che ci resta da fare.

Lo salutiamo con ampi gesti di gratitudine, il tanto sognato tramonto sul Nemrut Dagi sembra ormai cosa fatta.

Seguiamo con attenzione le indicazioni, la nostra marcia prosegue veloce grazie anche all'ottima strada.

Facciamo però poca strada, dopo una decina di chilometri vediamo in lontananza grandi cartelli gialli. Nooo! Ci sono i lavori e fanno deviare in un percorso alternativo.


Però noi decidiamo di proseguire lo stesso, magari in moto si riesce a passare.


La strada che scorre sotto di noi da ghiaiosa diventa pietrosa,

ma noi continuiamo lo stesso e man mano che si procede i sassi diventano sempre più grossi.


Non si può proprio andare avanti altrimenti rischiamo di spaccare qualcosa.

Siamo costretti a ritornare sui nostri passi e seguire le indicazioni di deviazione.

Riusciamo dopo qualche tentativo ad imboccare la strada di montagna che si arrampica ai 2000 mt del Nemrut.

Anche se il manto stradale è in buone condizioni siamo ormai in ritardo per il nostro appuntamento con il tramonto, tra un tentivo e l'altro abbiamo perso un sacco di tempo.

La strada attraversa piccoli villaggi di allevatori e agricoltori, ogni tanto incrociamo qualche macchina e pullmino che scende verso valle, nessuno però che come noi sale.

E' chiaro che il sole sta per tramontare e noi siamo sì e no a tre quarti della montagna. Decidiamo di proseguire sulla strada ormai deserta, facciamo altri chilometri ed incrociamo un anziano signore che avanza lento su un asino carico di legna,

“Hotel?” chiediamo indicando con le mani la direzione da cui l'uomo sta venendo.

“Hotel, hotel” dice e ci fa cenno di sì con la testa, sorridendo e, senza fermarsi, ci indica con la mano di proseguire.

In questi momenti apprezziamo ancora una volta l'utilità dell'universale linguaggio dei gesti.

Facciamo altri tornanti, la strada sale e la temperatura scende. Fa freddo e sui bordi della strada l'erba lascia il posto a lingue di neve non ancora sciolta. Ormai è buio, i fari della moto illuminano la striscia nera d'asfalto davanti a noi. In mezzo alla strada deviamo qualche grossa pietra, caduta allo sciogliersi della neve.

Decidiamo di fermarci ad indossare le felpe e i guanti più pesanti. Sembra impensabile trovare a questo punto un hotel, la zona è deserta.

Discutiamo sull'opportunità di proseguire o tornare indietro, e naturalmente decidiamo di proseguire, “per tornare indietro verso Malatya c'è sempre tempo”.

A moto spenta, ci rendiamo conto dell'estremo, immenso silenzio che ci circonda. Si sente solo il rumore del nostro respiro.

E per un lungo attimo la nostra attenzione ricade su quello che sta sopra di noi.

Grazie all'assenza di inquinamento luminoso ed ad una serata senza nuvola siamo sovrastati da un meraviglioso cielo stellato che accarezza i nostri occhi.

Alla vista di tanta bellezza un profondo senso di appagamento ci pervade, tanto da non poter desiderare altro che essere lì in quel momento ed in quel luogo.

Ecco stiamo vivendo la nostra euforia del viaggiatore, quella che riesce a riempire di senso profondo il nostro viaggiare, la stessa euforia della prima notte nel deserto, proviamo lo stesso senso di benessere che abbiamo vissuto davanti alla notte artica.

Solo dopo ci si renderà conto di aver vissuto uno di quei momenti che rimangono per sempre impressi nella memoria, fin nei più piccoli particolari.

Nel frattempo felpe e guanti hanno iniziato a fare sentire la loro presenza, i brividi di freddo lasciano spazio al tepore che sale dalle mani e pervade il resto del corpo, fino ad arrivare persino alle punte dei piedi che erano ormai ghiacciate.

Ripartiamo, proseguiamo nel nulla per qualche centinaio di metri stando attenti a dove andiamo a mettere le ruote su questo fondo reso così viscido dal fango. Svoltiamo all'ennesima curva e come per miracolo abbiamo un miraggio, intravediamo delle luci accese in lontananza, ci avviciniamo e increduli leggiamo la scritta Hotel Gunes.

Gli arriviamo di fronte, si accendono le luci nel cortile, avvertiti dal rumore della moto due uomini escono dalla penombra in punta di piedi per non sporcarsi nel fango le scarpe di cuoio, sono un po' perplessi nel vederci arrivare a quest'ora.

“Avete una camera per la notte?” chiediamo in inglese con tono speranzoso.

“Sì, ce l'abbiamo, e se volete riuscite anche a mangiare qualcosa” risponde l'uomo più basso che parla inglese.

Le nostre orecchie non potevano sperare di sentire altro, solo a quelle parole ci rendiamo conto del senso di fame che fino a quel momento avevamo represso, sapendo di non poterlo soddisfare.

Ci spiegano che l'hotel è aperto solo perchè c'era stata la prenotazione di una comitiva.

Si tratta di un gruppo di studenti che sotto l'egida della Comunità Europea stanno trascorrendo alcuni mesi nelle zone più remote della Turchia ad insegnare l'inglese ai ragazzi delle scuole.

Tra questo gruppo di inglesi e tedeschi c 'è anche una ragazza italiana che ci racconta della sua straordinaria esperienza, si dice veramente contenta di poter parlare e sentir parlare nuovamente in italiano.

Difatti, è un fiume in piena, parla con entusiasmo dell'esperienza che sta vivendo, di quanto sia innamorata di questo paese, ponte tra oriente e occidente, e delle persone che lo abitano.

E' lei che ci spiega quanto i Turchi riescano ad essere tanto ospitali, ma allo stesso tempo tanto riservati.

Ci racconta dell'importanza per i Turchi del linguaggio dei gesti, e tra gli esempi ci fa quel gesto, quello del “ma che cosa vuoi?...”, proprio quello che ci ha indirizzato il ragazzo sullo scooter al semaforo di Maltya.

“Ma cosa avete capito?!” dice ridendo, “questo gesto vuol dire che una cosa è bella, è buona, è super. Lo si fa per esempio anche dopo aver terminato di mangiare, è un modo per esprimere la propria soddisfazione”.

A riprova dei fraintendimenti che possono nascere quando si parlano linguaggi differenti.


Verso le undici veniamo interrotti dai gestori, che gentilmente ci avvertono che avrebbero dovuto spegnere il generatore di corrente, così da lì a poco sarebbe andata via la luce.

Ci accordiamo per l'indomani mattina, sveglia alle 4.00. E' a quell'ora che avremmo cercato di convincerli ad aprirci la sbarra posta all'inizio della strada bianca che conduce all'antico sito.

Salutiamo tutti e ci ritiriamo in camera.


Sono le quattro meno dieci quando sentiamo bussare alla porta.

Durante la notte, nonostante la stanchezza, non abbiamo quasi chiuso occhio. Come si fa a dormire pensando che fuori c'è una notte così meravigliosa e a qualche centinaio di metri da noi ci sono le famose statue colossali? Non sappiamo cosa ci abbia trattenuto dall'uscire prima.

Ci prepariamo velocemente, tanto che siamo i primi a scendere nell'atrio.

Dobbiamo insistere parecchio per riuscire a convincerli a lasciarci superare la barriera in moto, sono preoccupati perchè la strada è dissestata.

Appena dopo le 4, promettendo la massima prudenza, ci aprono e possiamo finalmente attaccare la salita.


E' ancora buio pesto.

Ai lati della strada, sotto il fascio luminoso dei fari della moto, la neve non ancora sciolta brilla, mentre quella che si è sciolta ha creato un fondo scivoloso e molto fangoso. Si sale a fatica tra pietre e fango, nei tratti più delicati è meglio che Rosanna scenda e superi l'ostacolo a piedi.


Dopo circa tre quarti d'ora siamo seduti sui gradini del terrazzo a godere di uno spettacolo veramente straordinario, meraviglioso. Qui capiamo cosa voglia veramente dire rimanere a bocca aperta, senza fiato.

Le grandi teste di pietra, staccatesi dalle colossali statue a seguito di un terremoto, si fanno accarezzare dai primi raggi del sole, e noi con reverente ammirazione assistiamo a questa “sacra” cerimonia che si ripropone ogni mattina . Non sappiamo più dove guardare, se dietro, verso le statue che a quest'ora del giorno assumono una tonalità particolare, o davanti, verso la palla di fuoco che fa capolino sull'orizzonte. In un momento si realizza una miscela perfetta tra arte e natura.

Siamo noi, i ragazzi dell'hotel e un gruppo di turisti turchi arrivati dal lato est della montagna. Un signore di mezza età ci si avvicina con grandi sorrisi, dice di essere Istanbul, anche lui motociclista, ci chiede con cortesia di poter fare una foto con noi con accanto la moto. Certo, allestita da viaggio fa la sua bella figura...

Sul lato della montagna c'è ancora molta neve, così qualche ragazzino del gruppo di turisti ne approfitta per divertirsi un po', a modo discesa con slitta ma senza slitta, scivolando giù con il sedere, fino a quando a guastare il gioco non interviene il guardiano, fino ad allora rimasto nella sua casa/roulotte/biglietteria a dormire, che a gran voce gli intima di smettere.

Scattiamo moltissime foto, come se in questo modo potessimo riportare a casa un pezzo di questa splendida mattinata.

Ma il tempo passa, è ora di ritornare in albergo, fare colazione e ripartire verso l'Ararat.

Riscendiamo da quella che con la luce assomiglia a una mulattiera e non senza difficoltà arriviamo nuovamente davanti all'hotel.

Ad accoglierci troviamo i due gestori, con la luce del giorno tutto sembra diverso, anche l'albergo sembra più accogliente, e soprattutto i due uomini sono una vera rivelazione.

Se la sera precedente ci erano parsi un po' schivi, oggi dobbiamo davvero ricrederci, dimostrano una gentilezza e una simpatia unica.

Dopo averci portato un'abbondante colazione si siedono con noi a parlare, uno parla inglese così fa da interprete anche per quell'altro che parla solo turco. Vogliono sapere di noi, e loro ci raccontano un po' della loro vita. Alla fine ci chiamano amici.

Regaliamo due stemmini con la bandiera italiana che prontamente attaccano sulle giacche tra fragorose risate. Ci assistono poi mentre prepariamo la moto prima della partenza, facciamo insieme le foto di rito davanti all'hotel, e ci salutano con la mano fin quando non spariamo dietro la curva.

Che bella mattinata, siamo veramente felici ...





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