Raggiungemmo Dushanbe nel
tardo pomeriggio, il sole era però ancora alto, e la temperatura
che da quando eravamo scesi di quota si era bloccata sui 38 gradi
non accennava a scendere. Ci eravamo preparati ad affrontare il
traffico della capitale ed una grande sudataccia per trovare
l'alloggio. Dushanbe si è invece presentata con il suo volto di
città accogliente. Ci trovammo senza quasi accorgercene in pieno
centro, lungo il grande ed ombreggiato viale alberato, prospekt
Rudaki, che attraversa da nord a sud l'intera città, ed in un attimo
fummo davanti all'albergo che veniva descritto dalla nostra guida
come uno dei migliori della città.
In effetti, era un
bell'albergo elegante, circondato da un prato molto curato con al
centro una grande fontana di pietra, attorniata da immense aiuole di
fiori coloratissimi, il movimento dell'acqua che scrosciava
abbondante rinfrescava l'aria. Nonostante avessimo deciso di trovare
finalmente un posto decente perché gli ultimi giorni non erano stati
proprio facili, forse questo era persino troppo.
Non saprei dire se i due
addetti alla sicurezza, uno giovane e alto e l'altro anziano e
minuto, che sedevano proprio a lato del cancello d'entrata, assunsero
quell'espressione perplessa perché colpiti dal nostro “mezzo da
sbarco”, o se quello sguardo interrogativo dipendesse dal nostro
aspetto non proprio in stile inglese e non proprio intonato al
livello di ostentata lussuosità del posto.
Dal modo in cui Rosanna
pochi minuti dopo averle salite, ridiscese le scale che portavano
all'ingresso e dall'espressione sconsolata del suo viso, capii che
quella notte noi l'avremmo passata altrove. Probabilmente Rosanna ci
aveva sperato, si era già fatta l'idea di una bella doccia, di un
bell'accappatoio candido e profumato e di un bel letto accogliente e
pulito.
“Non sono sicura se
abbiano detto la verità” disse “non vorrei che visto il mio
aspetto abbiano preferito dirmi che non avevano camere libere”
aggiunse.
In effetti, eravamo in
quella fase del viaggio in cui si è talmente “stropicciati” da
sembrare dei naufraghi scampati a una tempesta. Nel nostro caso era
una tempesta di sabbia e di fango. Nei giorni precedenti avevamo
infatti attraversato piste polverose, attraversato guadi e la moto
era sporchissima, così come lo erano le nostre tute, entrambi
eravamo lo specchio della strada percorsa fino a quel momento.
Avevamo un aspetto che ci faceva sentire più che a nostro agio tra
gli uomini delle montagne, tra i pamiri, ma che strideva
completamente con i costumi degli abitanti delle grandi città.
“Ma figurati, questi non
stanno mica a guardare se i dollari sono sporchi” gli risposi
sorridendo. Mi faceva un enorme tenerezza vederla così. Era
stanchissima, lo vedevo dalle linee del suo viso arrossato dal vento
e dal sole dell'alta montagna.
“Andiamo a trovare un
altro posto, e inizia a pensare che tra meno di cinque minuti sarai
sotto una bella doccia” aggiunsi.
Aprendo le braccia come se
fosse già sotto un getto d'acqua fresca, “Che bello, se mi dici
così sento più fresco” rispose.
Nel frattempo i due della
sicurezza, si erano alzati dalle loro sedie e si erano avvicinati a
guardare nel dettaglio la moto, iniziando a discutere tra loro come
se fossero due grandi esperti di meccanica. Io guardavo la loro
divisa fatta di camicia azzurra dalle maniche corte, sul petto un
taschino sul quale era stato cucito lo stemma inconfondibile, nero e
oro, che contraddistingueva gli addetti alla sicurezza. Alla camicia
erano abbinati pantaloni blu che non riuscivano a nascondere le
immancabili ciabatte di plastica che finivano però per compromettere
l'aspetto serioso che cercavano di darsi.
“At-ku-da?”
chiese il più giovane e intraprendente.
“Italia”
risposi.
“Ohhh! Italiaaaaaa”
mi fecero in coro i due.
Non feci
nemmeno in tempo a sperare che non attaccassero con... che subito i
due “Todo Cotugno”.
No, per
favore, era una vera persecuzione, non è possibile che Toto Cotugno
e le sue canzoni, insieme a quelle di Albano, fossero le uniche
“eccellenze” che gli italiani erano riusciti ad esportare in
queste terre lontane.
Li feci
contenti, sorrisi e risposi canzonandoli giusto un pochino “Si,
Todo Cotugno, un-i-ta-lia-no- ve-rooo”.
Sorrisero.
Noi però
dovevamo trovare un posto dove dormire, possibilmente decente.
Chiesi
ai due “gas-ti-ni-za?” gesticolando per farmi
comprendere.
Nonostante
il mio linguaggio verbocorporale i due non capirono.
Intervenne
Rosanna “mehmon'hona kayerda?” e senza che lei si
prodigasse in alcun gesto i due immediatamente afferrarono il senso.
Ci indicarono, più a gesti che a parole, che a qualche centinaio di
metri c'era un'altra sistemazione. Il più anziano dei guardiani ci
fece cenno di seguirlo, ci avrebbe accompagnato.
Rosanna
tolse il casco che nel frattempo aveva indossato e decise di
camminare insieme a lui.
Io li
seguivo a passo d'uomo.
La moto
non amava la situazione, sentivo la ventola che cercava di
raffreddare i bollori del motore, era sofferente, azionai allora la
seconda ventola che venne immediatamente in aiuto. Davanti a me,
Rosanna e l'uomo camminavano e parlavano. Avevo finito da un pezzo di
chiedermi come facesse a farsi capire visto che conosceva solo
qualche parola di russo e in uzbeko sapeva solo dire “dov'è
albergo?”.
Percorremmo
una ventina di metri, girammo l'angolo e per fortuna vidi un edificio
che aveva tutto l'aspetto di un hotel. Avevamo imboccato una strada
non asfaltata. Era l'ora in cui gli abitanti della via aprivano i
portoni che nascondevano i cortili curati e puliti e i ragazzini,
muniti di secchi pieni di acqua, bagnavano la strada per evitare che
i mezzi di passaggio sollevassero nuvoloni di polvere. Era
un'operazione che avevamo visto fare molto spesso ovunque, sera e
mattina, anche nei villaggi dove la polvere è una costante della
vita. Li vedevamo camminare tra la polvere, lavorare tra la polvere,
aprire caffè e ristoranti tra la polvere, aspettare i taxi
collettivi tra la polvere, i loro animali pascolavano tra la polvere,
ma si sforzavano di proteggere dalla polvere la loro vita privata.
Gettai
l'occhio sulla temperatura del motore, mi urlava di farlo respirare,
detti allora un piccolo colpetto di gas e mi portai davanti al grande
portone di ferro di quello che avevo capito essere l'hotel.
Rosanna
e l'uomo mi raggiunsero dopo qualche minuto.
“Quest'uomo
è veramente gentilissimo, si chiama Emomali, come il loro
presidente” disse Rosanna.
Nell'anziano
ritrovai quegli atteggiamenti di ospitalità che avevamo apprezzato
innumerevoli volte.
Emomali
suonò il moderno campanello che emetteva una luce azzurrognola, ma
non ottenne nessuna risposta.
Mentre
stavo pensando che all'interno probabilmente non c'era nessuno, lui
aveva già tirato fuori dalla tasca dei pantaloni l'immancabile
telefonino. Compose un numero, disse due parole e dopo qualche
secondo il portone si aprì. Ne uscì un ragazzino che immediatamente
lo salutò con una forte stretta di mano. Ci venne spalancato
l'enorme e pesante portone di ferro a due ante e il ragazzino ci fece
cenno di entrare e di portar dentro anche la moto.
Dopo la
soglia, la strada polverosa lasciava spazio a bellissime piastrelle
di marmo nere striate di bianco. Ebbi un attimo di esitazione, ma il
ragazzino mi fece cenno di non preoccuparmi, nonostante il pavimento
prezioso, potevo mettere senza problemi il cavalletto centrale. Lo
feci con delicatezza ma la moto pesantissima spostò il cavalletto,
sentii un forte stridio, era il rumore dello sfregamento del metallo
sul marmo. Il ragazzino sembrò non farci molto caso. Meglio così
pensai.
Salutammo
Emomali e lo ringraziammo come avevamo imparato a fare da queste
parti, con la mano destra sul cuore e lui ricambiò con un grande
sorriso. Anche oggi uno sconosciuto ci aveva accolto con gentilezza.
Continuavo a ritrovare motivi per apprezzare questa gente.
L'atrio
marmoreo che divenne il sicuro parcheggio per l'Ammiraglia lasciava
poi spazio a un bel giardino pieno di rose rosse. Da un grosso vaso
appeso ad un grande albero di more bianche scendeva una cascata di
fiori color ciclamino. Il posto era molto accogliente.
Dopo
aver faticosamente contrattato sul prezzo con la “rigida” padrona
dell'albergo, prendemmo possesso della spaziosissima camera. Erano
giorni che non avevamo l'occasione di fare una vera doccia e così,
in pochi minuti, la stanchezza accumulata durante la giornata venne
cancellata insieme alla polvere che avevamo addosso.
La
mattina seguente dei rumori provenienti dalla hall mi svegliarono.
Sentivo chiacchiere e rumori di stoviglie. Era il segno che bisognava
alzarsi dal letto? mi domandai.
Eravamo
a Dushanbe, capitale del Tajikistan e avevamo una missione da
compiere: ottenere un visto di transito uzbeko per evitare il “Death
Tunnel”. Ci eravamo autoconvinti che non ci sarebbero stati
problemi.
“Abbiamo
già ottenuto il visto dell'Uzbekistan in Italia, quindi non ci sono
ragioni perché ci rifiutino il transito nel paese” ci ripetevamo a
vicenda. Ero però pienamente consapevole che in questi paesi nulla è
mai certo in termini di burocrazia, ci si ritrova a combattere contro
una rigidità spaventosa.
Una
volta aperta la porta della camera capii la provenienza dei rumori.
La hall, neanche troppo spaziosa, sulla quale si apriva la nostra
camera, era stata momentaneamente trasformata in una sala colazioni.
Seduti sull'unico lungo tavolo ritrovammo i ragazzi conosciuti la
sera precedente. Rientrando infatti, un gruppetto di ragazzi francesi
avevano visto l'Ammiraglia e la locandina del viaggio sulle borse
laterali, incuriositi ci erano venuti a cercare.
Ci
dissero di essere a Dushanbe per lavoro, avevano allestito un ufficio
in una delle camere dell'albergo. Non riuscii però a capire di che
cosa si occupassero, probabilmente appartenevano a una delle
innumerevoli ONG che operano nel paese.
Ci
unimmo a loro e, dopo la “leggera” colazione a base di uova
fritte e salsiccia, salutammo i nostri amici d'oltralpe. E loro ci
gridarono “Bonne chance”.
“Speriamo
di non averne bisogno” bisbigliò Rosanna.
Prima
di uscire, detti uno sguardo all'Ammiraglia che poteva finalmente
godere di un po' di riposo. Aveva un gran bisogno di cure. L'olio
della forcella danneggiata aveva smesso di colare sul cerchione dove
si era formata una untuosa poltiglia marroncina, una miscela di terra
e olio che aveva sporcato anche la pinza dei freni.
Mi
avvicinai e Le sussurrai che nel pomeriggio ci saremmo occupati di
Lei.
Varcato
il portone, ci ritrovammo sulla strada dove i primi caldi raggi di
sole avevano asciugato la pioggia artificiale della sera prima. Ci
incamminammo. Erano le otto del mattino e il termometro dell'orologio
segnava trentadue gradi.
Un
grande fuoristrada scuro, guidato da un tizio con dei grossi occhiali
a specchio, ci passò a fianco a grande velocità alzando un enorme
polverone. Ci eravamo abituati, non ci restava che coprirsi il volto con
il foulard che era oramai diventato parte essenziale del nostro
abbigliamento, e fare finta di niente come dei veri asiatici.
Sulla
nostra mappa di Dushanbe, il consolato dell'Uzbekistan era
indicato piuttosto vicino da dove eravamo. Alla fine della strada
svoltammo a sinistra e ci trovammo sul marciapiede di un ampio viale
alberato che ci condusse, dopo qualche centinaio di metri, sulla via
principale.
A
quell'ora del mattino alla fermate dell'autobus molte persone
aspettavano. In Italia, quando sono alla fermata della metro o nella
sala di aspetto di una stazione, i miei occhi cadono spesso sulle
scarpe delle persone, come se potessero raccontare la storia di chi
le indossa meglio di ogni altro particolare. In Asia invece, la mia
curiosità si concentrava sui visi delle persone. Visi che
raccontavano di un'umanità che avevo sempre pensato essere così
lontana da noi, ma che in quel momento era invece così vicina,
reale.
Quando
arrivò l'autobus, all'apertura delle porte, ci fu l'arrembaggio. Le
porte si richiusero faticosamente dando un ulteriore spintarella alle
persone già pressate, e il mezzo stracarico ripartì. Feci un cenno
di saluto ad un anziano signore dalla pelle scura e incartapecorita
che aveva guadagnato un posto vicino al finestrino. Lui ricambiò con
un grande sorriso che mise in mostra una lunga fila di denti color
dell'oro.
Arrivammo
davanti al consolato con largo anticipo, apriva alle nove, ma davanti
all'ingresso era già assiepata molta gente, non si può certo dire
che fossero in fila. Uomini, donne con i bambini, erano tutti
ammassati, pronti a varcare per primi la soglia ad un cenno della
guardia. Certo, tutte quelle persone ad aspettare non erano un buon
segno. I nostri dubbi sulla possibilità di ottenere il visto
aumentarono.
Qualcuno
ci fece cenno di andare poco più avanti dove scorgemmo uno
sportello, anche questo affollato. Toccò a Rosanna, con i due
passaporti in mano, farsi spazio tra le persone. Venne risucchiata e
scomparì alla mia vista. Ottenne le informazioni che cercava.
Dovevamo andare prima di tutto in un ufficio dove ci avrebbero
compilato la richiesta ufficiale di visto, e poi saremmo dovuti
ritornare tra la folla in attesa davanti al consolato.
Riuscimmo,
con un po' di pazienza, ad avere la richiesta di visto firmata
completa di timbri e foto tessera che avevamo diligentemente
portato. Ritornati all'ingresso del consolato, la folla si era
ingrossata. Ci stavamo ormai rassegnando a passare delle ore prima di
ottenere il diritto di entrare, quando la guardia che teneva a bada
la situazione, ci vide e ci fece cenno di sopravanzare.
Le
persone in attesa ci fecero passare senza protestare, e noi ci
ritrovammo davanti a tutti. Un'anziana signora grassoccia, avvolta in
una abito tradizionale coloratissimo che aveva, di diritto o di
forza, guadagnato la prima fila ci chiese “At-ku-da?,
America?”,
“Italia”
rispose Rosanna,
e
lei “Oh! Italiaaa” e aggiunse “Italia khorosho”
.
“Beh,
si per essere bella è bella” le dissi io in italiano.
Lei non
capì ma sorrise ugualmente.
La
guardia ci fece eco, “Italia?”, ed in un inglese un po' stentato
ma comprensibile ci disse che non voleva che ritornassimo in Italia
dicendo che i tajiki ci avevano fatto aspettare ore sotto il sole. É
vero, tornammo in Italia con la consapevolezza che noi non aspettammo
sotto il sole, ma le altre persone che ci aveva fatto superare sì.
Dopo
qualche minuto fummo raggiunti da un uomo. Dall'abbigliamento, non
avevo dubbi che fosse uno straniero e come noi era stato graziato,
aveva ottenuto il cenno che permetteva di non rispettare il proprio
turno. Era Herbert, un turista tedesco. Dieci giorni prima aveva
consegnato la richiesta di visto per l'Uzbekistan e gli era stato
comunicato che glielo avrebbero rilasciato solo quel giorno. Ci disse
che il desiderio di visitare Samarcanda era tale da essersi fermato
tutti quei giorni a Dushanbe.
“È
questo il bello di essere pensionato, si ha molto tempo a
disposizione” disse.
Impossibile
per noi aspettare così a lungo, avremmo potuto star fermi a Dushanbe
al massimo un paio di giorni.
Noi
avevamo però in mano una richiesta per un visto di transito, di
norma è un visto che si richiede lungo la strada e richiede tempi di
attesa meno lunghi. Speravamo che fosse così anche lì. Comunque, lo
avremmo scoperto molto presto.
Qualche
minuto dopo le nove, la guardia ci fece cenno che si poteva entrare,
oltre noi lasciò passare una decina di persone, giusto quelle che
potevano trovare spazio nella piccolissima sala d'aspetto. Iniziò da
parte dei “locali” la solita corsa a scavalcarsi a vicenda. Fummo
superati da tutti tranne che dal tedesco, probabilmente anche lui non
aveva ancora acquisito l'esperienza necessaria ad affrontare le resse
centro asiatiche.
Quando
arrivò finalmente il nostro turno, presentammo le due domande
infilate nella prima pagina dei passaporti. L'impiegato tenne le
domande e ci restituì i passaporti.
“Italia?”
disse, non alzando neanche lo sguardo.
“Dieci
giorni” aggiunse con tono perentorio, come se volesse prevenire
ogni nostra eventuale protesta, che naturalmente non si fece
attendere.
“La
nostra richiesta è per un visto di transito” rispose Rosanna con
il tono più gentile possibile.
“Non
importa se visto di transito o no, ci vogliono dieci giorni” disse
seccato.
Cercammo
di spiegargli che viaggiavamo via terra e ci serviva il visto per
rientrare in Italia, a casa, e che non ci saremmo fermati in
Uzbekistan più del tempo necessario ad attraversare il paese, ma lui
ormai ci ascoltava a malapena e scrollava la testa. Aveva assunto
l'atteggiamento del burocrate che non ammette repliche.
“Noi
non possiamo aspettare così a lungo” gli dissi senza la speranza
di ottenere la minima apertura.
Riprese
le nostre domande che aveva appoggiato sopra le altre e ce le
restituì con fare stizzito.
Non
sarebbe servito a nulla continuare a insistere, avevo imparato a
conoscere questo modo di fare, quell'atteggiamento di superiorità
del burocrate rispetto a chi gli sta di fronte, dell'impiegato che
anziché tentare di risolvere un problema lo peggiora.
Alle
nostre spalle Herbert aveva assistito alla scena, rimase sbalordito
quanto noi dal comportamento tanto arrogante.
Uscimmo
dall'ufficio delusi, non tanto per il rifiuto alla nostra richiesta
di visto che non ci era dovuta, ma per l'atteggiamento aggressivo
dell'impiegato.
Questo
rifiuto ci metteva un po' in difficoltà.
“E
adesso? Ci toccherà passare da quel maledetto tunnel” mi disse
Rosanna appena fuori dal consolato.
“Non
ci sono alternative” risposi.
“Avevo
sperato di evitarlo, ma a questo punto cercheremo di sopravvivergli”
disse.
Avremmo
dovuto attraversare il tunnel che ci avrebbe portato verso Kujand, e
da lì verso la città di Isfara da dove saremmo entrati in
Kyrgyzstan, a Batken. In quel momento secondo le informazioni
raccolte prima di partire, era uno dei due soli confini aperti agli
stranieri insieme a quello di Kyzylart.
Le
informazioni lette prima di partire dicevano che i rapporti tra
Tajikistan e Kyrgyzstan erano sempre molto tesi e poteva quindi
capitare che i confini venissero chiusi senza preavviso. Il consiglio
era di informarsi in tempo reale sullo stato delle frontiere. Il
problema era che raccogliere lì informazioni era più facile a dirsi
che a farsi.
Una
volta entrati in Kyrgyzstan ci saremmo trovati la strada sbarrata da
un enclave appartenente all'Uzbekistan.
“Ti
ricordi qualcosa a proposito della strada, in Kyrgyzstan, che da
Batken porta verso Osh senza entrare in Uzbekistan?” chiesi a
Rosanna.
“Ti
riferisci alla strada secondaria che dovrebbe circumnavigare
l'enclave uzbeka?” domandò.
“Sì,
proprio quella” risposi.
“Avevo
letto che per evitare l'enclave i tassisti locali percorrono una
strada secondaria. La strada esiste, ma a quanto ricordo sarebbe
difficile da trovare, non ci sono indicazioni e non è segnalata
sulle cartine” rispose Rosanna.
“L'importante è avere la certezza che la strada esista. Se c'è la
troveremo, o altrimenti ci faremo accompagnare da un tassista” le
dissi.
“Non
ci credo che i Kyrgysi, all'interno del loro paese, se vogliono
andare dalla città di Batken alla città di Osh attraversino
l'Uzbekistan. Avranno sicuramente creato una via alternativa”
disse.
Il
rifiuto del visto uzbeko, oltre al Tunnel della Morte, ci poneva
dunque un altro problema una volta in Kyrgyzstan, come arrivare da
Batken ad Osh senza entrare in territorio uzbeko.
Ma delle
questioni da risolvere ce ne saremmo però occupati a tempo debito,
non volevo assolutamente che questi problemi influissero sul nostro
morale, andando a rovinare il resto della giornata.
Una volta raggiunto nuovamente il vialone principale, fermammo uno
dei tanti taxi gialli che passavano di lì e gli chiedemmo di
accompagnarci al Museo Nazionale delle Antichità del Tajikistan.
Non che fossi particolarmente interessato alla storia dei siti
greco-battriani di Takht-i-Sangim, o ai dipinti murali sogdiani di
cui il museo poteva vantare splendide mostre, ero invece
profondamente curioso di vedere la grande statua del Buddha dormiente
di Ajina Tepe.
Il tassista, sentita la nostra meta, ingranò la prima e partì senza
esitazioni. Rimasi stupito perché normalmente, e naturalmente per
colpa nostra, impiegavamo molto più tempo a farci capire. Il mezzo
si diresse velocemente verso sud, percorse tutto il viale Rudaki, poi
prese quella che a mio parere poteva essere una circonvallazione e,
una volta arrivato davanti ad un grande edificio in stile neoclassico
color salvia, fermò il mezzo. Dal finestrino del taxi si vedeva
chiaramente che il luogo era deserto, il cancello era chiuso così
come lo era la porta d'ingresso, e non c'era nessuna scritta che
indicasse il museo.
“Muzey, da?” chiese Rosanna aggiungendo “big Buddha,
da?” .
A quelle domande il tassista sembrò svegliarsi dal torpore, ci
guardava come se ci vedesse per la prima volta e si stesse domandando
come aveva fatto ad arrivare fin lì e cosa ci facevamo noi sul suo
taxi.
Dal finestrino aperto il sole si faceva sentire, gli feci cenno di
avanzare di qualche metro dove l'ombra di un albero ci avrebbe
quantomeno permesso di respirare. Faceva molto caldo.
Non ci si capiva reciprocamente, eravamo in una fase di stallo,
l'unica cosa certa era che non eravamo dove avremmo dovuto essere e
non riuscivamo neppure a spiegargli che sarebbe stato meglio se ci
riportava dove ci aveva caricato.
L'uomo ebbe un lampo di genio, glielo lessi negli occhi, ormai si era
quasi destato dal torpore, estrasse il telefonino, parlò con
qualcuno che passò a Rosanna.
Rosanna disse in inglese al telefono dove volevamo essere
accompagnati, ripassò il provvidenziale telefono al tassista che
iniziò ad annuire, aveva capito. Fece velocemente inversione e ci
portò, questa volta si, davanti al magnifico parco che ospitava il
museo che stavamo cercando.
Dopo aver acquistato i biglietti che come al solito ci costarono
duecento volte di più rispetto ai locali, ed aver rifiutato
l'offerta di una guida parlante inglese, finalmente ci trovammo
all'interno del Museo Nazionale delle Antichità del Tajikistan. La
struttura era più moderna di quanto mi aspettassi, organizzata in
modo molto razionale, sul pavimento erano disegnate delle frecce che
indicavano l'itinerario da seguire.
Il grande museo era semideserto, qua e là seduti nella penombra
delle sale dei custodi annoiati sembravano non accorgersi neppure
della nostra presenza.
Le frecce sul pavimento ci accompagnarono in questo viaggio nel
tempo. Le diverse sale, come le tessere di un mosaico, mettevano in
mostra quanto la cultura tajika potesse essere ricca e complessa.
La cultura islamica e pre-islamica, nascosta per lungo tempo durante
la dominazione sovietica, potevano finalmente essere mostrate, e i
tajiki potevano orgogliosamente riappropriarsene.
La presenza di manufatti appartenenti all'induismo, al buddhismo e
allo zoroastrismo mostravano chiaramente come l'Asia Centrale fosse
crocevia delle diverse culture che giungevano dall'India, dalla Cina
e dalla Persia. Anche la civiltà greca e romana trovavano spazio
nella storia del paese. Non a caso il museo, tra gli oggetti rari,
poteva mostrare una minuscola immagine in avorio di Alessandro Magno
risalente al 300 a.C.
Quando giungemmo alla fine della visita, nell'ultima sala prima
dell'uscita ci trovammo faccia a faccia con il grande Buddha
dormiente. La sala lunga e stretta era illuminata da una fioca luce
giallognola, sulla destra giaceva su un fianco l'imponente statua
mentre a sinistra, appoggiata al muro, una lunga panca di legno ci
permise di sederci ad ammirare l'artefatto. Non c'erano dubbi, erano
stati bravi, erano riusciti a ricreare all'interno del museo un
ambiente dall'atmosfera mistica, la stessa che si sarebbe potuta
respirare all'interno di un tempio buddhista.
Dopo qualche istante in cui ci trovammo soli nella sala, fummo
raggiunti da una giovane coppia di fidanzati che camminava mano nella
mano. Il ragazzo dai tratti somatici mongoli indossava un pantalone
nero e una camicia bianca, la ragazza aveva invece un viso dai
lineamenti europei, indossava una maglietta color ciliegia sopra ad
un paio di jeans a vita bassa. Appena ci videro ci rivolsero
d'istinto un grande sorriso.
“Where are you from?” mi chiese lui, dopo qualche secondo
di esitazione.
“Italia” risposi.
“Italia? Rim?” mi domandò interessato.
“No, non Roma, viviamo vicino a Milano” spiegai.
Ci raccontò di essere uno studente universitario e di aver da poco
studiato la storia di Roma e di esserne stato completamente
affascinato. Sognava un giorno di poter venire in Italia e vedere con
i suoi occhi i fasti dell'antica Roma.
E come spesso ci era capitato, anche questo giovane studente
approfittava dell'incontro con degli stranieri per esercitare un po'
il suo inglese.
“Davvero bellissima la statua del Buddha” gli dissi.
“Stupefacente” aggiunse Rosanna.
Visto il nostro interesse e, evidentemente felice di poter mettere a
nostra disposizione le sue conoscenze, il ragazzo iniziò a spiegare,
“Nel 1966 ad Ajina Tepe, sull'antica via della seta nel sud del
Tajikistan, alcuni archeologi sovietici durante alcuni scavi
nell'area di un tempio buddhista, portarono alla luce, insieme ad
altri reperti minori, la statua dell'enorme Buddha addormentato.
I ritrovamenti più piccoli furono spediti all'Ermitage di San
Pietroburgo, mentre i 100 pezzi che componevano il Buddha, troppo
ingombranti per essere trasportati, anziché essere mostrati al
mondo, furono nascosti per decenni nel seminterrato del museo di
Dushanbe.
Nel 2001 grazie al finanziamento di un ONG francese, un archeologo
russo di grande esperienza,fatto venire apposta dall'Ermitage, venne
incaricato di mettere insieme il puzzle del Buddha e dopo sei mesi di
estenuanti lavori, la statua ritrovò la sua completezza”.
“Molto interessante” lo rassicurai.
“Dopo che nel marzo del 2001, in Afghanistan, i talebani fecero
saltare con la dinamite l'enorme Buddha di Bamiyan, alto ben 57
metri, il nostro Buddha di Ajina Tepe, con i suoi 14 metri, è
considerato il più grande di tutta l'Asia centrale”. Continuò
lui.
“Il viso del Buddha è bellissimo, l'immagine della serenità”
disse Rosanna avvicinandosi alla grande faccia di pietra.
“E' vero, la calma del viso riflette la vicinanza al nirvana negli
ultimi istanti prima del sopraggiungere della morte” disse il
ragazzo.
La ragazza dalla maglietta color ciliegia, in silenzio fino a quel
momento, si rivolse al ragazzo in tajiko, lui guardò l'ora sul
telefonino e ci fece cenno che era tardi, dovevano andare. Giusto il
tempo per un saluto e come erano arrivati li vedemmo andar via.
Usciti dal museo, decidemmo di andare a mangiare qualcosa prima di
rientrare in albergo. Nonostante il caldo, optammo per camminare, i
grandi alberi che abbellivano i viali di Dushanbe ci avrebbero
riparato dal sole di mezzogiorno. Ci fermammo al Caffè Merve, un
locale vivace e moderno, frequentatissimo dalla gente del posto e che
ci era giusto di strada. Seduti ad uno dei molti tavoli di questo
brioso fast food, ordinammo due grandi insalate miste
innaffiate da una bella caraffa di ayran, lo yogurt liquido e
leggermente salato tipico di queste zone.
Come da programma, una volta tornati in albergo, dedicammo
l'intero pomeriggio a rimettere ordine nelle nostre cose. Rosanna
fece il bucato, non le parve vero di poter stendere la biancheria al
sole del giardino.
La vera bisognosa di attenzioni era però l'Ammiraglia. Prima di
tutto bisognava darle una bella lavata, solo così potevo controllare
che non fosse ferita. Non sarebbe stato un compito difficile trovare
un “Avto moyka”, visto che in Asia centrale gli
autolavaggi, insieme ai meccanici e ai negozi di pezzi di ricambio
per auto erano persino più diffusi e riforniti delle botteghe
alimentari. Infatti, consultammo il ragazzo dell'albergo che ci
spiegò che una volta raggiunta la strada principale, dopo qualche
centinaio di metri, avremmo trovato ciò che cercavamo.
In effetti, arrivammo all'autolavaggio senza difficoltà, era a
conduzione familiare. Il padre, occupato in quel momento a insaponare
un grande fuoristrada, affidò al figlio il compito di occuparsi
della nostra Ammiraglia. Non c'era possibilità che io potessi usare
l'idropulitrice quindi rassegnato, solo dopo aver spiegato al ragazzo
di tenere la lancia ad una certa distanza e di non gettare acqua sul
cruscotto, cercai di ritrovare Rosanna, rimasta fuori dal garage per
non essere investita dagli spruzzi. La vidi, sull'altro lato della
strada all'ombra, ad un tavolino di un caffè seduta insieme a un
tizio che in quel momento stava cercando, senza molto successo, di
infilare quello che immaginai essere il mio casco. Quando mi
avvicinai e l'uomo mi vide rinunciò all'impresa, gli feci capire che
se voleva mettere la sua testona dentro al mio casco avrebbe dovuto
aiutarsi allargandone i cinturini di chiusura. Ci riuscì ma
resistette solo pochi secondi, quando la sua testa si liberò dal
casco vidi il suo volto diventare paonazzo e la sua bocca cercare
aria. Scoppiammo tutti e tre in una grassa e sonora risata.
Ordinammo del chay, ma non ci fu modo di offrirglielo, eravamo
suoi ospiti.
L'uomo biondo, di corporatura robusta e dalla carnagione color del
latte che aveva rischiato l'asfissia da casco si chiamava Sergej,
tutto di lui mi parlava delle sue origini russe. Era suo il grande e
lussuoso fuoristrada a fianco al quale avevo lasciato l'Ammiraglia, o
meglio quel lussuoso Jeeppone nero era dell'associazione
americana per la quale Sergej lavorava come autista. Ecco spiegato il
suo fluente inglese che permise alla conversazione di decollare.
Il suo lavoro aveva reso Sergej un grande conoscitore delle strade
tajike, dovendo accompagnare spesso i suoi capi nel Pamir era
consapevole delle difficoltà che avevamo dovuto affrontare nei
giorni precedenti il nostro arrivo a Dushanbe. Considerava il nostro
viaggio un'impresa incredibile che solo due pazzi potevano aver
compiuto, ma probabilmente fu proprio la nostra audacia a farci
guadagnare la sua simpatia.
“Quando ripartite?” domandò Sergej.
“Domani mattina” rispose Rosanna.
“Riprenderemo la strada in direzione nord, verso Kujand”
aggiunsi.
“Da Dushanbe dovete proseguire per Chorbag, poi Varzob, poi Pugus,
poi Anzob, Ayni...” Sergej iniziò a elencarci a memoria i nomi
delle città che avremmo attraversato l'indomani prima di arrivare a
Kujand.
“A proposito Sergej, conosci allora l'Anzob tunnel, il tunnel della
Morte?” domandò Rosanna.
“Naturalmente si. Bad road, bad road...” rispose, “il
tunnel è buio, ci sono grosse buche e c'è molta acqua al suo
interno. E' stato costruito dagli iraniani. Non come quello che
troverete più a nord, illuminato e ventilato, costruito dai cinesi”
spiegò.
Cinesi. Bene, siamo a posto, non sapevo vi fosse anche un secondo
tunnel da attraversare, sperai che i cinesi sapessero costruire i
tunnel meglio di come gli avevo visto costruire le strade.
“Ma pensi che incontreremo problemi noi, in due sulla moto carica?”
chiese Rosanna, cercando comunque di mascherare la sua
preoccupazione.
“Se avete una buona illuminazione e andate piano, con il vostro
tipo di moto non dovreste avere particolari problemi. Il consiglio
che vi posso dare è quello di partire da Dushanbe domani mattina
molto presto, in modo da evitare che il caldo e il massiccio passare
dei camion rendano l'aria all'interno della galleria irrespirabile”
spiegò Sergej.
“Allora, il tunnel si trova a circa 80 chilometri da Dushanbe, ci
metteremo meno di un'ora per raggiungerlo, quindi se partiamo alle
quattro e mezza siamo a posto” dissi.
“Se ce la fate a partire a quell'ora sarebbe perfetto” confermò
Sergej.
“Vi dico solo una cosa: ora il vostro nome è Rosanna e Fabrizio,
ma dopo aver percorso la galleria vi chiamerete la signora Rosanna e
il signor Fabrizio” aggiunse.
Ci fece ridere.
A quel punto il proprietario dell'autolavaggio mandò il figlio ad
avvisarci che sia il fuoristrada che la moto erano pronti.
Salutammo Sergej con baci e abbracci. Avevamo incontrato una bella
persona, uno dei tanti incontri che rendono speciale il ricordo di un
luogo. Un vero peccato non avere avuto con noi la macchina
fotografica per fare una foto insieme. Ci pensò lui con il
telefonino a scattarne qualcuna mentre ci allontanavamo con la moto.
Tornati in albergo dopo aver fatto il pieno all'Ammiraglia, che da
quanto era lucida non si riconosceva più, passammo il resto del
pomeriggio all'ombra dell'atrio dell'hotel a controllare che la moto
fosse in ordine. Amavo quei momenti in cui mi potevo occupare della
salute del'Ammiraglia, mi rilassava saperla in ordine e pronta per
affrontare un'altra partenza.
Controllai l'olio, l'astina di plastica nera mi diceva che il livello
era giusto, non c'era bisogno di alcun rabbocco; anche il bullone del
canotto di sterzo era saldo, la stretta di emergenza data a a Khorog
sembrava tenere nonostante tutte le sollecitazioni; controllai la
pressione delle gomme, quella anteriore aveva bisogno di una
gonfiatina; lubrificammo la catena come facevamo quasi ogni sera; ed
infine, controllai lo stato della forcella. Lo stelo era ancora
velato di olio, il paraolio non faceva il suo lavoro ma, prima o poi,
l'olio avrebbe dovuto finire. Speravo solo che l'altro stelo che ora
stava lavorando per due non cedesse. Le strade brutte, le bad road
non erano terminate, dovevamo ancora affrontare tutto
l'attraversamento del Kazakhstan.
L'indomani
mattina la sveglia suonò alle quattro e un quarto, avevamo preparato
i nostri bagagli già la sera precedente quindi, giusto il tempo di
infilare le ultime cose nelle borse e, alle quattro e mezza come da
programma, eravamo già fuori dal portone dell'hotel.
Fuori era ancora buio e le strade di
Dushanbe erano quasi deserte. Solo le donne addette alla pulizia
delle strade, si muovevano nella notte come fantasmi. Munite di scope
di saggina dai manici corti che le obbligavano a tenere la schiena
curva iniziavano i loro turni di lavoro. L'abbondante stoffa che le
avvolgeva dalla testa ai piedi lasciava intravedere solo gli occhi.
Provai un po' di compassione per queste figure femminili, soprattutto
per le più anziane. In quella situazione invece, quel lavoro doveva
essere considerato una benedizione e un'ancora di salvezza.
Alle prime luci dell'alba, Dushanbe
era ormai alle nostre spalle e noi viaggiavamo in una gola su una
bella e fresca strada di montagna che seguiva le linee disegnate dal
fiume Varzob. L'abbondante e impetuosa acqua spumosa del fiume, alla
nostra sinistra, correva in direzione contraria alla nostra ed era di
quel colore tra il grigio e il verde, tipico dei fiumi che scendono
dai ghiacciai. Sulla nostra destra avevamo invece la parete della
montagna.
Il fondo stradale finalmente buono mi
fece ritrovare il piacere di guida grazie anche al carico
perfettamente bilanciato. Nonostante i problemi alla forcella
anteriore sentivo che avrei potuto togliere le mani dal manubrio e la
moto avrebbe continuato la sua corsa dritta come una spada.
I numerosi ristoranti e alberghi
costruiti sul ciglio della strada, proprio sopra al fiume come delle
palafitte, erano il segno che questo doveva essere il luogo di riposo
preferito dagli abitanti della capitale. Il fiume doveva essere
abitato da molte trote visto che non c'era ristorante che non le
esibisse in grandi insegne.
Intanto la strada continuava a salire
di quota, e più salivamo sul fianco della montagna, più ci
allontanavamo dal fiume. Ogni tanto l'occhio mi cadeva sul
chilometraggio parziale della giornata, tenevo sotto controllo la
distanza che ci separava dalla galleria.
Alla vista di un'entrata in galleria,
Rosanna mi fece cenno di fermarmi, voleva che accendessimo
l'interfono, dopotutto avevamo tenuto l'ultima carica di batteria
proprio per questo momento. Ma quello non sarebbe stato il tunnel
della Morte.
In seguito incontrammo diverse piccole
galleria, e davanti ad ognuna ci sorgeva il dubbio se fosse quella
giusta. Non ci aspettavamo certo che avessero messo un cartello di
avvertimento con scritto “State per imboccare un tunnel terribile
lungo cinque chilometri. Buona fortuna”.
Ed infatti fu così che ci trovammo in
galleria. Non saprei dire quanto durarono quei cinque mila metri, so
solo che fino ad un momento prima la strada che era stata in
condizione buone, scomparve da sotto le ruote dell'Ammiraglia e tutto
si fece buio. Vedevo solo delle piccole luci che arrivavano in
direzione contraria, e più si avvicinavano più diventavano grandi
fino ad abbagliare completamente la vista.
Sentivo che l'asfalto si era
trasformato in ghiaia, percepivo il battistrada dell'anteriore
affannarsi a cercare appiglio. Accesi allora i provvidenziali e mai
così tanto utili fari allo xeno. Andava meglio ma, dopo qualche
minuto, non riuscivo comunque a vedere dove mettevo la ruota, il
fascio di luce mi tornava indietro da una enorme pozza d'acqua
putrida che non sapevo quanto fosse profonda. Le macchine e i camion
che ci venivano di fronte zigzagavano cercando la traiettoria
migliore per evitare le buche, le pozze d'acqua ma, e soprattutto, i
pericolosi tondini di ferro che spuntavano dal terreno come delle
lance e che stavano a ricordare un'originaria armatura ormai allo
sfascio. Lo stesso facevamo noi e i mezzi che mi precedevano.
Proseguivamo a zig zag sperando nell'uscita.
Superai una macchina che andava troppo
piano, rischiavamo altrimenti di cadere. Man mano che ci inoltravamo
nel cuore della montagna l'aria diventava sempre più grigia e
asfissiante. La visiera dei caschi abbassata e il “fularino” sul
naso e la bocca non riuscivano a fare un granché. I camion a gasolio
e a metano rendevano già a quell'ora l'aria irrespirabile.
L'interfono non si stancava di
sentirci ripetere “E' pazzesco”, “Sembra di essere entrati in
un girone infernale”, “Attento al buco”, “Hai visto quei
ferri che spuntavano proprio davanti alla ruota?” .
Ad un certo punto, l'autoarticolato che
avevamo davanti e che procedeva ad una certa distanza iniziò a
spostarsi verso sinistra, ingombrando i tre quarti del tunnel,
rallentò a tal punto che in un attimo dovevo decidere. Mi dovevo
fermare e mettere giù il piede nella buca d'acqua, ma non sapendo
quanto fosse profonda rischiavamo di cadere sul fianco o, mi dovevo
buttare e sorpassarlo a destra, sperando che ci vedesse e augurandomi
che non stesse cercando di evitare qualcosa nel quale ci saremmo
finiti noi. Decisi per il sorpasso a destra. Rosanna rimase in
silenzio, ma percepivo la sua tensione crescere, sentivo le sue mani
stringere la mia vita e le gambe chiudersi nervosamente sui miei
fianchi. Naturalmente temeva che il bestione non vedendoci decidesse
di ritornare in carreggiata tagliandoci così la strada. Ero
consapevole che stavamo prendendo dei rischi enormi.
Il rumore metallico che
l'autoarticolato emise dopo essere finito in una buca rimbombò forte
nella galleria. Poi iniziò a riportarsi verso destra. Il mio sangue
nelle vene divenne ghiaccio. Cominciai allora a suonare il clacson
all'impazzata nella speranza che l'autista si accorgesse di noi,
ancora un pochino e non avrei avuto più spazio e ci avrebbe
schiacciato contro la parete di roccia.
“Noooo, nooo!
Cavolocavolocavolocavolocavolo” Rosanna interruppe così il
silenzio radio.
Per nostra fortuna il grande bestione
mantenne la posizione e noi riuscimmo a mettere le nostre ruote
davanti alle sue. Non riuscii però a capire perché avesse fatto
quella manovra visto che davanti non c'era nulla. Tirammo un sospiro
di sollievo.
Poco più avanti, un camion era fermo
nella corsia opposta. Gli occupanti erano scesi e uno di loro
cercava di rendersi visibile puntando negli occhi degli autisti di
passaggio la luce di una torcia, mentre altri due li vedevo chini a
terra mentre cercavano di sostituire una ruota.
Il resto del viaggio nella galleria fu
un continuo schivare fosse di ghiaia, buche piene d'acqua proveniente
da sorgenti che sgorgavano copiose direttamente dal fondo stradale e
poi, quei maledetti ferri che spuntavano dal terreno. Le costanti
rimasero fino alla fine oltre al buio, l'aria irrespirabile e i
rumori sordi che riecheggiavano tra le pareti di roccia.
Dopo cinque terribili e interminabili
chilometri, la luce in fondo al tunnel ci annunciò che l'incubo
sarebbe presto finito. Dopo aver superato l'ultima ed enorme pozza
d'acqua fummo finalmente liberi.
Il mio corpo chiedeva solo luce e aria.
Una volta fuori, per prima cosa parcheggiai l'Ammiraglia, avevo
bisogno di togliere il casco e la giacca, dovevo respirare.
Ci lasciammo andare in un urlo
liberatorio “Evvai, ce l'abbiamo fatta!” ma, non eravamo i soli a
cercare di allentare la tensione. Dopo di noi uscì dalla galleria
un'autovettura, l'uomo seduto accanto all'autista con la testa fuori
dal finestrino, iniziò ad urlare a squarciagola verso di noi
“freedom, freedom, freedom”.
Dopo qualche minuto, sentimmo un forte
rumore di ferraglia, era l'avvertimento che anche l'autoarticolato
che aveva rischiato di schiacciarci aveva preso in pieno l'ultima
buca e stava per uscire. Mi girai verso il tunnel e vidi uscire il
grande camion, non era solo, insieme a lui usciva un'incredibile
nuvola di smog.
Anche il camionista sentì il bisogno
di fermarsi, ne scese un ragazzo giovane, avrà avuto si e no
vent'anni. Fece un giro d'ispezione intorno al mezzo. Il camion
sembrava uscito da una rivista degli anni '50, era incredibile come
potesse essere ancora in circolazione su quelle pericolose strade di
montagna. Il giovane autista iniziò a dare calci su ogni pneumatico
per verificarne la durezza, ogni tanto lo vedevo chinarsi sotto al
mezzo per controllare la tenuta delle parti meccaniche sottoposte a
quel percorso di guerra. Intanto dall'alto del camion, due uomini
anziani con la testa coperta dal tipico zuccotto bianco indossato dai
musulmani, ci guardavano incuriositi. Uno dei due alzò una mano in
segno di saluto, l'altro ci disegnò una V con l'indice ed il medio.
Terminata l'ispezione, il giovanotto risalì sul camion, innestò
rumorosamente la prima e, solo dopo una sonora suonata di clacson,
ripartì faticosamente lasciandosi dietro un'enorme nuvola nera.
Anche per noi era giunto il momento di
rimetterci in marcia, eravamo a 2700 metri di quota e dovevamo
ritrovare la pianura. Lasciata la galleria, il fondo stradale ritornò
in buone condizioni. Un susseguirsi di larghi tornanti attraverso un
paesaggio alpino ci ricondusse al livello del fiume dove incontrammo
finalmente un piccolo villaggio. Lungo la strada principale scorsi
il fumo proveniente da un tipico barbecue di metallo arrugginito,
segno evidente della presenza di un ristoro.
La tensione stava pian piano svanendo e
la mancata colazione iniziava a farsi sentire, il mio stomaco
chiedeva la sua ricompensa.
Dovemmo faticare parecchio prima di convincere il cameriere che non
volevamo mangiare shashlik, gli spiedini
di carne ammassati su un vassoio di plastica rossa aspettavano solo
di essere grigliati. Uova, una tazza di caffè americano e uno yogurt
erano per noi, a quell'ora della mattina e abituati ad altri tipi di
colazione, il giusto compromesso.
Nonostante il sole, la temperatura si manteneva gradevole, l'aria che
scendeva dalla montagna ci regalava la sua frescura. A differenza di
tutti gli altri avventori seduti all'interno del locale, riuscimmo a
farci apparecchiare su un tavolino all'aperto. Il senso di
claustrofobia non era ancora completamente passato e si stava così
bene lì fuori.
Una volta ripartiti senza fretta dal caffè e lasciato l'abitato
alle nostre spalle, la strada iniziò nuovamente a salire. Questa
volta però i tornanti si facevano più stretti e ciechi. In un paio
di curve ebbi la conferma che da queste parti non sapevano proprio
guidare in montagna. Auto o camion viaggiavano a velocità sostenuta
sempre e solo in contromano, salvo sterzare all'ultimo momento quando
si trovavano di fronte ad altri veicoli. Il fatto che il traffico
fosse quasi inesistente riduceva i rischi, ma bisognava comunque
tenere gli occhi ben aperti.
Quasi senza accorgercene ci trovammo immersi in un paesaggio
straordinario. Alla nostra sinistra, la parete rocciosa che aveva
fatto spazio alla strada, rappresentava per noi un ancora di
sicurezza, mentre alla nostra destra, senza alcuna protezione, la
sede stradale terminava in uno strapiombo senza fine. Alzando invece
lo sguardo oltre il burrone, si apriva davanti agli occhi una
cartolina in cui le linee dei profili delle imponenti montagne si
ripetevano all'infinito come le onde in un oceano. Molte cime lontane
erano ancora ricoperte di neve, quelle vicine invece erano spoglie,
la nuda roccia ospitava qua e la solo qualche cespuglio.
Arrivammo così al tunnel dei cinesi di cui ci aveva parlato Sergej,
il Shahriston Tunnel. Come il tunnel della Morte anche questo era
lungo cinque chilometri, era però l'unica cosa che avevano in
comune. Il fondo stradale della galleria Shahriston era buono, niente
buche né acqua, c'era l'illuminazione e sul soffitto erano persino
appesi grossi ventoloni, simili ai motori degli aerei, che
agevolavano il ricambio dell'aria.
Giungemmo quindi alla conclusione che i cinesi sapessero costruire
meglio i tunnel delle strade e, per una volta, ringraziammo i cinesi
per il lavoro svolto.
Pian piano la strada ci riportò verso la pianura. Passammo dalle
magnifiche montagne dalla temperatura gradevole al paesaggio monotono
di una pianura arroventata dal sole.
Le rocce lasciarono presto spazio a enormi distese di grano
interrotte solo da qualche più piccolo appezzamento da cui
spuntavano filari di vite e qualche albero da frutto.
Sbirciando la cartina posta sulla borsa serbatoio potevo vedere che
ci stavamo infilando in una stretta lingua di terra circondata a est
dall'Uzbekistan e a ovest dal Kyrgyzstan.
L'alzataccia della mattina e il paesaggio che si ripeteva sempre
simile a se stesso, associati alle alte temperatura, il termometro
segnava quasi quaranta gradi, iniziarono ben presto a produrre il
loro effetto soporifero. Anche Rosanna aveva la stessa sensazione di
torpore. Decidemmo allora che era meglio fermarsi per riprendere un
po' di lucidità.
Lungo la strada trovammo una tipica chaikhana, ci sdraiammo a piedi
scalzi sul tappeto e sui morbidi cuscini disposti attorno al basso
tavolo “terrazzato” che godeva dell'ombra di un grande albero.
Con il caldo togliere gli stivaloni da moto procurava a noi un gran
sollievo, i nostri vicini probabilmente non erano dello stesso
avviso.
Non avevo fame, e poi la cucina mi sembrava così trasandata che
fermò sul nascere ogni languore. Ordinai del chay. Rosanna
non seppe invece resistere ad un bicchiere di Kefir, un latte
fermentato molto simile allo yogurt, dopo che lo vide servire a una
famiglia seduta al tavolo proprio di fianco al nostro.
Su un altro “terrazzino” due uomini sulla cinquantina dai
lineamenti caucasici mangiavano una zuppa, sul tavolo faceva bella
mostra una teiera da cui però non si servivano. Riempivano
invece i loro bicchieri da chay di un liquido trasparente
proveniente da una bottiglia di vetro nascosta sotto al tavolo e che
faceva capolino a ritmi sostenuti. Era sicuramente vodka.
Una breve folata di vento mosse le foglie e ruppe la cappa di caldo
afoso che toglieva il respiro.
Anche se non l'avevamo ordinato, la signora che serviva ai tavoli ci
portò, insieme alle bevande, anche una bella rotella di pane caldo,
tanto profumato e dalla crosta croccante da farci dimenticare le
condizioni igieniche del posto.
Quella breve pausa bastò a farmi ritrovare le energie.
“Chi va a prendere la cartina?” chiesi.
“Vado io” rispose Rosanna, riacquistata anche lei la consueta
vitalità.
Dopo aver studiato la cartina stradale, giungemmo entrambi alla
stessa conclusione: visto che non era così lontana, avremmo potuto
tentare di arrivare a Isfara, cittadina tajika al confine con il
Kyrgyzstan, sbrigare le operazioni doganali e, se tutto fosse andato
liscio, la sera stessa avremmo potuto raggiungere Batken, già in
territorio Kyrgyzo.
“Allora diamoci da fare!” dissi.
“Benissimo” rispose Rosanna.
Come sempre, l'Ammiraglia aveva destato curiosità. Attorno a lei si
era formato un capannello di persone tra cui emergeva l'alto e
panciuto cuoco del ristorante, avvolto in un grembiule colore del
cappuccino con striature color caffè, e serviva davvero molta
immaginazione per credere che in origine quel pezzo di stoffa potesse
essere stato del colore del latte.
“Ghermania?” domandò l'uomo indicando l'Ammiraglia.
“Austria, Kei Ti Em” spiegai.”
Dalla risposta del suo viso capii che non aveva afferrato il senso.
“Italia” mi corressi.
“Khorosho” disse, e questa volta la sua faccia paffutella si aprì
in un luminoso sorriso, “Italia khorosho” ripeté soddisfatto,
gli uomini insieme a lui annuivano sorridendo.
Una cosa era certa, queste persone non conoscevano il significato
della parola indifferenza e non ti facevano mai sentire solo. Li
salutammo con energiche strette di mano e ripartimmo.
Viaggiammo su una strada dal fondo perfetto, condussi l'Ammiraglia
attraverso i soliti campi di grano deserti, attraverso piantagioni di
albicocche che si perdevano a vista d'occhio e che brulicavano di
vita dato che era giunto il tempo della raccolta.
Sotto gli alberi le albicocche raccolte venivano stese ad essiccare,
si formavano così delle enormi macchie arancioni che sembravano
uscite dalla fantasia di un pittore.
Ai bordi della strada, cassette di legno piene di albicocche dalla
polpa matura indicavano ai passanti che bastava fermarsi per poterle
acquistare fresche.
Ad un certo punto, sulla nostra sinistra, le piantagioni finivano in
un grande lago di un colore celeste intenso, sulla cartina era
indicato con il nome di Kairakum reservoir. Proseguendo
ancora, lasciammo alle spalle sia l'acqua che gli alberi e ci
ritrovammo in una zona brulla, desertica.
Nel tardo pomeriggio, come previsto, arrivammo nella cittadina di
Isfara. Non mi stupii più di tanto nel non trovare cartelli che
indicassero il posto di confine. Il Gps mi indicava una strada da
seguire ma, per maggior sicurezza, raggiunta la periferia della città
chiedemmo un paio di volte. La direzione era comunque quella giusta.
Arrivammo davanti al cancello della dogana, non c'era nessun ad
aspettare d'entrare. Al di là della cancellata, un giovane in divisa
mimetica con un fucile che spuntava da dietro la spalla, abbandonò
pigramente l'ombra e la sedia sbilenca sulla quale era scompostamente
seduto per venirci incontro.
“Pasport” chiese senza
aprire il cancello.
Obbedimmo e Rosanna passò i passaporti attraverso l'inferiata .
“Italia, da?” disse
guardandone la prima pagina. Dopo qualche minuto ci restituì i
documenti, aprì il cancello e ci fece entrare.
Lo stesso militare ci fece cenno di parcheggiare l'Ammiraglia poco
più avanti, vicino ad un piccolo container da cui uscì un altro
militare che con un cenno ci invitò ad entrare.
Senza attendere che ce li chiedesse Rosanna gli porse i passaporti.
Entrando nel container, sulla destra una tenda di cotone consunta
lasciava intravedere una brandina sulla quale era sdraiato, spalle
verso di noi, un uomo sempre in mimetica.
Il militare con i nostri passaporti in mano prese invece posto sulla
sinistra, nel piccolo spazio adibito ad ufficio dove c'era una sedia
di legno, un tavolo di plastica bianca e, sul pavimento in un angolo,
un ventilatore sudicio e malmesso che cercava faticosamente e
rumorosamente di smuovere l'aria, fuori calda ma dentro
irrespirabile.
“Pasport mototsikl” chiese.
Gli porsi allora il libretto della moto, lo mise sul tavolo senza
neanche guardarlo. Si concentrò invece sul visto tajiko, ma
soprattutto sul permesso GBAO che era nella pagina a fianco,
indicandolo ci fece capire che dovevamo tirar fuori dieci dollari a
testa.
“Ten ten dollar” continuava a ripetere, visto che noi
facevamo finta di non capire.
Arrivò anche l'altro collega in divisa mimetica a dargli manforte,
dal modo in cui quest'ultimo cercava di rimettere la camicia dentro
ai pantaloni e dalla faccia assonnata immaginai essere l'uomo che un
attimo prima faceva la siesta.
Avevamo
invece immediatamente capito dove volevano arrivare, ma non eravamo
assolutamente disposti ad assecondarli. Avevamo viaggiato in lungo e
in largo
per il Tajikistan, avevamo attraversato tutto il Pamir riuscendo a
non farci scucire neanche un dollaro, adesso con ormai un piede fuori
dal paese, si presentava questo tipo. Se lo poteva scordare, ero
disposto a stare lì ore, ma non gli avrei dato un centesimo.
L'importante era dimostrarsi calmi, come in effetti eravamo, ormai
abituati a queste situazioni che non impressionavano più me né
tanto meno Rosanna.
Decidemmo di togliere le giacche da moto non solo per non morire di
caldo, sentivo le gocce di sudore scendere lungo la schiena, ma così
volevamo comunicar loro di non avere alcuna fretta, potevamo star lì
tutto il tempo necessario.
“Visa
ok, niet dollar”
dissi, abbozzando un sorriso, e rivolgendomi al nuovo arrivato che
nel frattempo si era posizionato al mio fianco,
“Murgab
visa ok, Khorog visa ok, Dushanbe visa ok, Isfara problem?”
chiesi, dandogli due belle pacche sulla spalla. Nelle stesse
situazioni finora la pacca sulla spalla aveva funzionato.
“konsul'stvo
visa Istanbul, no dollar! Istanbul
Consulate said us no dollar!” aggiunse Rosanna decisa.
Il militare, con una mano teneva il passaporto e con le dita
dell'altra iniziò a tamburellare sulla plastica del tavolo, alla
maniera di un pianista. Ebbi per un attimo l'idea che non avesse
gradito la parola consolato. Adesso inizierà a fare il duro, pensai.
Decise invece inaspettatamente di non insistere oltre.
Ci avevano provato senza neanche troppa convinzione e non gli era
andata bene. Ci restituì allora i nostri documenti dopo aver apposto
malvolentieri il timbro di uscita.
“Dasvidania, e amico la prossima volta comportati bene” dissi in
italiano.
Dal
lato kyrgyzo le cose andarono nettamente meglio. Senza neanche farci
scendere dalla moto un militare prese i nostri documenti e dopo
qualche minuto ce li restituì e con un bel “Welcome
to Kyrgyzstan”
, eravamo già in territorio kyrgyso, a una decina di chilometri da
Batken.
In città dovevamo trovare da dormire, decidemmo quindi che la prima
cosa da fare era dare un'occhiata alla guida che avevamo con noi.
“A causa delle difficoltà e delle spese aggiuntive che si devono
affrontare per transitare dalle enclave tajike e uzbeke, Batken è
ancor oggi in larga parte inesplorata e come tale risulta essere poco
sviluppata dal punto di vista turistico” furono queste le parole
della guida che Rosanna lesse a voce alta.
Una semplice frase che non offriva soluzioni ma che palesava quello
che già immaginavamo: stavamo cercando una sistemazione per la notte
in un posto che sapevamo essere tutto tranne che una località
turistica e, l'indomani mattina, avremmo dovuto affrontare il
problema dell'enclave uzbeka di Sokh.
Per arrivare a Batken attraversammo un territorio arido, di sabbia e
di rocce color senape, il tutto contrastava nettamente con l'azzurro
intenso del cielo. La strada era deserta ed intorno a noi nessuna
presenza umana, nessun rumore, solo il suono del motore
dell'Ammiraglia che usciva dagli scarichi e il sibilo del vento
attraverso la fessura della visiera, tenuta leggermente aperta. In
lontananza, il profilo di una catena montuosa dava una prospettiva di
profondità all'orizzonte, dovevano essere i monti Alay.
Erano le sei del pomeriggio quando arrivammo in centro città davanti
a quello che sembrava essere un albergo, del tipo intourist di
epoca sovietica, e il caldo non allentava la sua morsa.
Nonostante fosse il capoluogo della provincia omonima, Batken a
primo acchito mi ricordava un piccolo villaggio siberiano, si
respirava l'atmosfera tipica delle zone di confine.
Bastò chiedere ad un passante per scoprire che il nostro intourist
in realtà era un ufficio governativo regionale. Furono vani i nostri
tentativi di scoprire se in zona vi fosse un albergo, nessuno ci
seppe dare indicazioni, scuotendo la testa ci sorridevano ma nulla di
più.
Trovare un albergo affidandosi al caso si rivelò invece più facile
del previsto. A causa di lavori stradali, ci ritrovammo su una via
secondaria dove svettava, a lato della strada, un bel cartellone che
indicava un albergo. Seguimmo le indicazioni, ci condussero per
qualche chilometro in periferia, sulla strada per Osh. Superammo
l'aeroporto e poco dopo, su una stradina laterale ci trovammo davanti
all'albergo.
All'interno una donna ci sentì arrivare, abbandonò la canna
dell'acqua in mezzo ai cespugli di rose che era intenta a bagnare, e
ci venne incontro con un sorriso e un'espressione che generava una
naturale simpatia.
Consapevole della bellezza del posto, prima di dirci il prezzo della
camera insistette affinché Rosanna gli desse uno sguardo. Avevamo
chiesto il costo solo perché era giusto farlo, ma ci saremmo fermati
lì qualunque cifra, o quasi, ci avesse chiesto e poi non è che ci
fossero molte altre alternative.
La camera, molto semplice ma spaziosa e pulita, aveva una finestra
posta tra i due letti singoli, si affacciava su un rigoglioso
frutteto di albicocchi, un verde che contrastava con l'arido terreno
che avevamo visto tutt'intorno. Quel posto era un'oasi.
Subito dopo aver scaricato l'Ammiraglia, avemmo modo di apprezzare
il fresco gazebo posto nel giardino, circondato dai colori delle rose
e delle bouganville. Tutto in quel luogo sembrava creato per far
dimenticare all'ospite quello che si lasciava all'esterno.
La birra fresca che la gentile signora ci fece servire in
quell'ambiente accogliente pensai essere il giusto epilogo di una
giornata lunga ed impegnativa.
Avevamo lasciato alle nostre spalle il Tajikistan con il suo
splendido e meraviglioso Pamir che tante emozioni ci aveva regalato
ma che altrettanto ci aveva fatto soffrire. Ero consapevole che un
capitolo del viaggio, forse il più importante, si era concluso.
Quello che a casa sembrava un sogno si era ora realizzato in
un'esperienza unica. Un'altra parte di mondo entrava a far parte del
nostro vissuto e la presa di coscienza di aver spostato un pochino
più su l'asticella dei nostri limiti di motoviaggiatori mi
gratificava parecchio. Bisognava riconoscere che davanti ad un
territorio dalla natura così estrema, l'avercela fatta non era
dipeso evidentemente solo dalle nostre abilità, era stato
altrettanto importante aver goduto di una buona dose di fortuna.
Però, quel che più contava non era tanto l'avercela fatta, ma il
modo in cui eravamo riusciti ad affrontare le situazioni. La piena
soddisfazione che mi riempiva l'anima nasceva dal senso di
adeguatezza che avevo provato durante tutto il viaggio fino a quel
momento. Come avevamo reagito alle difficoltà, e come ci eravamo
plasmati al contesto, rispecchiava insomma l'immagine che io avevo di
noi come viaggiatori.
3 commenti:
bellissimo, interessante la galleria della morte...comunque la prossima volta fai cantare a romina..ops..a Rosanna. un saluto ciao ragazzi
Invidia...
Un saluto anche a voi... Non vediamo l'ora di rivedervi in viaggio...
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